Simone
Ghelli,
23/10/2007
http://www.frameonline.it/ArtN39_Borselli.htm
f.
- Come
nasce il progetto di Outsiders Movie?
pino borselli
- La casa
di produzione Outsiders
Movie nasce nel 2007 col fine di realizzare film il più possibile
originali, cercando di utilizzare al meglio, per quel che è possibile, le
nuove tecnologie. Questa piccola casa indipendente compierà un anno a
gennaio e ha già incamerato la produzione del suo primo film, Solitudo.
f.
- Solitudo
è il primo lungometraggio che autoproduci. Com’è stato lavorare senza
ricevere alcun finanziamento?
p.b.
- È stato
duro e difficile, ma è stata anche una sfida, ed è in questo senso che
ci siamo mossi. Siamo stati in grado di sopperire alle varie mancanze
finanziare con una grande preparazione tecnico-artistico di sei mesi,
cercando di trovare le soluzioni migliori che non penalizzassero il
progetto, e abbiamo concentrato le riprese in diciassette giorni e in due
mesi di postproduzione. Oggi autoprodursi non è
esattamente una scelta, ma semplicemente una necessità. Solitudo
è potuto diventare un film perché la passione di tutti quelli che hanno
collaborato al progetto, mettendo a disposizione tutta la loro esperienza
professionale, è stata decisiva. Ci hanno creduto, e hanno accettato la
sfida. È un film corale, un nucleo di figure professionali che insieme si
sono rimboccate le maniche e hanno dimostrato prima di tutto a se stessi,
e spero in seguito anche ad altri, che tutto ciò è possibile. Fare
cinema, un cinema in cui ci si crede, non deve passare per forza per gli
organi costituiti, soprattutto quando questi, per tutte le loro ragioni,
non ti degnano di attenzione. Allora che fai? Ti dici: “Ho scritto un
film ma nessuno mi dà i soldi per farlo… non lo faccio e lo metto nel
cassetto”. Ecco: il progetto Solitudo risponde a questo, il film
c’è, esiste, e se qualcuno vorrà potrà vederlo.
f.
- Avete
già i contatti per una possibile distribuzione?
p.b.
- Sinceramente
no. Sin dall’inizio si è pensato di far girare il film nel circuito dei
festival, poi vedremo.
f.
- Solitudo
è un film che riflette, tra le altre cose, sul processo creativo alla
base di ogni storia. Puoi spiegarci com’è nato il soggetto e qual è
stato il lavoro di messa in scena?
p.b.
- Il
soggetto è stato scritto circa un anno e mezzo fa. Mi incuriosiva cosa
accadesse a un artista prima di compiere la propria opera, di qualunque
tipo essa fosse, quel marasma di emozioni, suoni, immagini, di esperienze
vissute, e poi le facce, le persone, per poi scoprire piano piano i
personaggi che ti conducono verso una storia e te la mostrano. Ecco,
questo è il nucleo del film. Per me il racconto, la storia sono
fondamentali. In Solitudo la struttura ha un arco chiuso diviso in
quattro quarti, all’interno dei quali ci sono quattro percorsi narrativi
diversi che si intrecciano tra loro, come ad amalgamarsi, per suscitare
nello spettatore, spero, la continua curiosità di come questa storia andrà
a finire.
f.
- Fin
dall’inizio del film è palese il ruolo centrale del montaggio. Qual è
stato il tuo apporto durante questa fase?
p.b.
- C’e
stato un ottimo feeling tra me e Gianluca Quarto, il
montatore, che è una di quelle figure chiave del progetto nel modo in cui
te ne parlavo prima. Lui è stato molto bravo ad affinare quella che, già
in scrittura, era una mia idea di ciò che sarebbe dovuto essere il
montaggio, e, come ti dicevo, anche in questo ci siamo preparati a fondo.
Ci tengo a sottolineare anche il lavoro di Daniele Poli, il
direttore della fotografia, altra figura chiave del film. Mi sembra che in
digitale siamo riusciti a ottenere un interessante bianco e nero.
f.
- Visto
che ti occupi anche di illustrazioni e di musica, vorrei chiederti qual è
la tua idea di cinema. Per te è un’arte in grado di sintetizzare,
riunendoli, tutti gli altri linguaggi?
p.b.
- Il cinema
ti da la possibilità di utilizzare tutto. Nell’immagine ci sono parola,
suono, musica, ma anche l’immagine fine a se stessa. Tutto ciò mi
affascina da sempre, è un immenso parco giochi al quale non so
rinunciare.
f.
- L’unica
cosa di cui forse non ti occupi personalmente (correggimi se sbaglio) è
il teatro. Come è stato lavorare con gli attori?
p.b.
- Ti
sbagli, perché ho avuto parecchie esperienze teatrali. Con la maggior
parte degli attori che compare nel film ho lavorato in teatro. Con gli
attori mi trovo benissimo, mi affascinano, trovo incredibile la loro
capacità di rendere viva la tua fantasia e di appropriarsene per poi
lasciarla nuovamente libera. Amo gli attori.
f.
- Rispetto
ad altri film e documentari girati al Pigneto, dal tuo film emerge una
visione diversa di questo quartiere, una zona di Roma che sta subendo
molte trasformazioni.
p.b.
- Sì, ho
cercato di riprendere aspetti che andassero oltre gli stereotipi del
quartiere popolare ritratto come isola felice. Il Pigneto è un luogo
storico per il cinema, basti pensare a Pasolini
o a certi film del neorealismo, ma è anche altro. Nonostante mantenga
ancora alcune caratteristiche della storica borgata, ha assunto anche
alcuni tratti comuni alle periferie cittadine. Ecco, volevo che nel mio
film non comparisse come un luogo riconoscibile, nel senso di
“tipico”.
f.
- Nel
tuo film si sente chiaramente una certa influenza del cinema americano,
soprattutto nel modo di narrare. Quali sono i tuoi maestri?
p.b.
- Non mi
sento di citare precisi artisti, io seguo tutto il cinema e ho svariate
influenze. Un certo cinema americano mi interessa molto, così come sono
molto legato alla tradizione del grande cinema italiano. Un certo cinema
americano che oggi è conclamato ha attinto dichiaratamente dal nostro
cinema importante. Oggi forse mi incuriosisce fare un piccolo procedimento
inverso, attingere e filtrare quel tipo di cinema americano integrandolo a
quella tradizione di cinema italiano che ci ha dato l’attenzione
internazionale.
f.
- E del
cinema italiano contemporaneo che ne pensi?
p.b.
- Non so
esattamente che pensare. Mi sembra poco stimolante, forse un po’ troppo
imbottigliato in una logica produttiva estremamente televisiva, affidata
unicamente al finanziamento statale. Ma c’è sempre la possibilità di
una scossa, e spero presto che anche qui da noi si possano vedere film
caratterizzati da proposte diverse.
f.
- La
cosa che ho trovato più interessante di Solitudo
è il lavoro che hai fatto per intrecciare il piano narrativo con quello
del linguaggio cinematografico, a tratti sperimentale, senza mai
sbilanciarti né da una parte né dell’altra. Come intendi questi due
aspetti del cinema?
p.b.
- Li
ritengo integrati. Ritenevo che per Solitudo (perché poi ogni film
fa storia a sé) una mescolanza di linguaggi espressivi potesse diventare
una forza narrativa importante, perché, come ho detto prima, per me
comanda la storia. L’importante è sapere dosare gli elementi. Anche
questa per me è stata una sfida interessante.
f.
- Per il
futuro che progetti hai? Pensi che continuerai sulla strada dell’autoproduzione
o vedi anche altre possibilità?
p.b.
- Sono
vent’anni che provavo a fare un film, ora finalmente ci sono riuscito.
Di copioni nel cassetto ne ho parecchi. Come ti dicevo, autoprodursi è
una necessità, quindi se in seguito nessuno mi darà fiducia per
realizzare altri film è probabile che continuerò ad autoprodurmi, ma se
qualcuno mi darà i fondi necessari di certo non ci sputerò sopra. La
cosa più importante è non tradire la storia del film o il tipo di cinema
che stai inseguendo, perché sarebbe come tradire il pubblico. |