Simone Ghelli, 17/10/2007
http://www.frameonline.it/Rec_Solitudo.htm

Il primo lungometraggio del regista Pino Borselli, già autore di alcuni cortometraggi premiati in vari festival, nonché illustratore e fumettista, si distingue dal panorama cinematografico italiano soprattutto per la forte valenza sperimentale del linguaggio adottato. Fin dall’incipit lo spettatore viene infatti proiettato in un flusso d’immagini “primordiali”, dove i quattro elementi naturali, che poi coincideranno con i quattro capitoli del film, coesistono tutti insieme. Grazie al ritmo imposto dal montaggio, il film riesce a fondere fin da subito questi elementi con la colonna sonora (non a caso i quattro capitoli vengono definiti “quarti”, con un riferimento esplicito alla metrica adottata in musica). Per quanto concerne la storia, introdotta da una voce fuori campo che nei primi minuti ci nega la presenza del proprio corpo, va sottolineata la semplicità del plot, che è funzionale al linguaggio, proprio perché lascia maggiore spazio al potere evocativo delle immagini. Laddove per semplicità non s’intende affatto banalità, sia chiaro, quanto una linearità scarna, a tratti ermetica, che “dice” senza mai andare oltre ciò che le è essenziale. Anche la scelta del bianco e nero va in questa direzione, coadiuvata poi dall’eccellente  fotografia che tende a esaltare le zone d’ombra, da cui i corpi degli attori sembrano a volte ergersi letteralmente, come esseri nati da quella stessa materia oscura. Se  il mondo è dunque caos (l’iniziale fusione dei quattro elementi) l’atto creativo che cerca di dargli un ordine non può che essere partorito in solitudine. La storia di Grande Capo e Little Baby viene infatti raccontata dai quattro giocatori di poker (ancora questo numero) rinchiusi nel silenzio di una stanza avvolta nella penombra, che come iniziati narrano di una storia ormai divenuta leggenda, che proprio attraverso la loro parola rivive davanti ai nostri occhi. Anche lo scrittore, colui a cui appartiene la voce off iniziale, è un individuo solo, proiettato in un’altra dimensione da cui muove i fili dei personaggi partoriti dalle proprie storie, come soli sono i vari saltimbanco che Grande Capo incontra lungo il proprio cammino. Se le storie nascono in qualche modo sempre dalla solitudine, è anche vero che esse intrecciano le vite che incontrano lungo il percorso; non soltanto quelle dei suoi protagonisti, ma anche di coloro che sentono il desiderio di scoprire come va a finire. Un desiderio di ascoltare e di sapere che ci rende più vivi. C’è, nell’ampio respiro di questo racconto, qualcosa che lo avvicina di più a un certo cinema americano che non a quello nostrano (che resta invece legato spesso a un certo intimismo, che corrisponde poi all’atrofia di un occhio sempre più incapace di cambiare punto di vista). Lo stesso quartiere del Pigneto (Roma), usato come un palcoscenico teatrale costituito dalle varie stazioni – le tappe percorse dal protagonista – è visto sotto una luce originale, diversa: non più come luogo di accattoni quanto piuttosto come scorcio metropolitano di una periferia senza centro, se non quello delle vite che la agitano (la più agitata delle quali è sicuramente quella di Little Baby, che al mutismo di Grande Capo regala il suo amore più sincero, quello dello sguardo che oltrepassa le apparenze della carne).
Solitudo
è dunque in primo luogo un film sul potere dell’affabulazione, che ci ricorda con forza che il cinema sa e deve tornare a raccontare soprattutto attraverso le immagini, ma è anche un film sulla necessità del silenzio (come nella sequenza in cui il Pigneto ci viene restituito senza l’assordante rumore del traffico) in una società in cui la parola è diventata un bene in svendita tra gli altri. Partendo dalla coesistenza di più linguaggi, come in una summa universale, Solitudo mette in mostra il processo alla base di ogni operazione artistica: togliere ciò che non è necessario per arrivare all’essenza delle cose. In fondo il totem che Grande Capo costruisce con i vari rottami è qualcosa di più della semplice somma delle sue parti, così come il cinema è qualcosa di più della semplice somma dei linguaggi che adotta.